“Se Dio esiste, perché permette tutto questo?”. Questa domanda almeno una volta nella vita ha occupato le nostre menti di fronte agli orrori del mondo e della follia umana. A renderla di nuovo viva e dolente, sul palco del Teatro Curci, in uno scenario non poi così lontano (il 22 aprile del 1938, a Vienna), Sigmund Freud (Alessandro Haber),che nel suo studio in attesa di avere notizie della figlia prelevata dalla Gestapo, interroga il suo strambo “visitatore”: Dio (Alessio Boni).
“Il visitatore”, opera tradotta di Éric-Emmanuel Schmitt porta in scena tematiche difficili: la fede, i mali del mondo e l’analisi del proprio inconscio con straordinaria maestria, riuscendo a catturare l’attenzione degli spettatori che tra tragedia e ironia vivono una battaglia verbale, quella tra il conscio e l’inconscio, e sull’esistenza di Dio che in un modo o nell’altro tutti, credenti e non, hanno avuto modo di vivere. A fare da sfondo uno dei conflitti più atroci e meschini che hanno segnato la nostra storia, il Terzo Reich e la persecuzione degli ebrei.
La regia di Valerio Binasco ci porta nell’appartamento in Berggstrasse 19 a Vienna dove il celeberrimo padre della psicanalisi attende notizie della figlia Anna, dopo che in seguito ad una visita di un agente della Gestapo (Francesco Bonomo), viene arrestata per essere interrogata. Lei, Anna (Nicoletta Robello Bracciforti), stanca dell’ingiustizia che si sta perpetrando ai danni degli ebrei e incapace di sottostare alle regole che vogliono la sottomissione alla Gestapo e ai loro soprusi, in un momento di rabbia, attacca il caporal maggiore tedesco e viene portata via. Poco prima aveva cercato di convincere suo padre a firmare un foglio che gli permettesse di poter espatriare per meriti scientifici.
Freud, rimasto solo e in preda al panico e ai suoi colpi di tosse violenta dovuti al tumore alla gola che da lì a breve ne decreterà la morte, si aggira per l’appartamento e se in un primo tempo decide di firmare quel “maledetto” foglio che garantirebbe una via di fuga, aggiungendo addirittura al prestampato parole d’encomio per la Gestapo, non riesce però a vincere il suo orgoglio e la sensazione di tradimento nei confronti degli altri ebrei senza via di scampo, e non firma. In questi momenti di tormento, tra solitudine e sconforto, i suoi pensieri vengono interrotti dall’incursione di uno sconosciuto che piombandogli in casa da una finestra, senza presentarsi e fornire chiari motivi sulla sua presenza, incomincia ad interrogarlo e a conversare con lui in maniera a volte accesa a volte confidenziale e pacata, ma senza mai voler convertire l’interlocutore.
Lo psicanalista più famoso della storia, incuriosito e al tempo stesso infastidito da quella strana presenza, presto si rende conto che quel visitatore non è un ladro né un malato di mente bisognoso di aiuto e ben presto in lui viene a presentarsi un dubbio in grado di mettere in forse le convinzioni di un’ intera esistenza: quel ragazzo bizzarro e impertinente è Dio, quell’entità che lui ha sempre negato e dalla quale si è sempre tenuto lontano perché un “ateo non ha illusioni, le ha barattate per il coraggio e la dignità”.
Quell’ospite misterioso parla a Freud del suo futuro, gli dice che presto riabbriaccerà sua figlia e che andranno via e gli spiega, smascherandone l’inconscio, che il suo non voler lasciare Vienna non è dovuto alla sua nobile intenzione di non distaccarsi dal destino crudele in serbo agli altri ebrei, ma è frutto della nostalgia, del dolore nel lasciare la sua città e i ricordi in lei insiti della giovinezza, per andare in un luogo in cui sarebbe un vecchio qualunque. Gli dice che scriverà un libro che intitolerà “L’uomo Mosè e la religione monoteistica” e che presto morirà. Nel dubbio che sempre più s’insinua il dottore decide di usare l’arma a lui più congeniale per sapere la verità e decide di analizzare lo sconosciuto tramite l’ipnosi; in questa pseudo-seduta Dio gli parla del bambino che è stato Freud e della prima volta che la sua voce è arrivata alle Sue orecchie, quando a cinque anni rimasto solo in casa cominciò ad urlare senza ricevere risposta convincendosi poi, crescendo, che “il mondo non fosse altro che una grande casa vuota dove nessuno risponde alle grida”. In un andirivieni di ricordi e mistero, tra rivelazioni e fragilità colmate con la scienza, Sigmund lotta con se stesso tra la voglia di lasciarsi andare alla fede, considerata da lui anestesia dello spirito e vissuta dagli imbecilli che credono ai miracoli, e la sicurezza della materia scientifica che da sempre gli dà il sostegno necessario per essere ciò che è.
La sua verità vacilla in questa notte di orrore e terrore e tra confusione e sostegno, commozione e rabbia lo scontro si snoda tra un Dio che è un’ipotesi, perché se cosi non fosse le Sue non sarebbero altro che “promesse mancate” di fronte ai mali del mondo, e l’ uomo schiavo del suo libero arbitrio e artefice della propria vita. In questo confronto senza vinti e vincitori il padre della psicanalisi trova con il Padre eterno un unico punto d’incontro: nella bellezza della musica di Mozart. Ma l’idillio dura solo il tempo di una ripresa di fiato dopo una lotta estenuante e tra accuse di superbia che Dio rivolge all’uomo del ‘900, convinto di avere in pugno il mondo e di volersi sotituire a Lui e le parole amare e dolenti di Freud che stremato gli urla: “se sei onnipotente, sei cattivo, e se non sei cattivo, non sei abbastanza potente. Criminale o limitato, non sei un dio all’altezza di Dio”, l’incontro si chiude con il visitatore folle che scappa dalla finestra negando l’invito del dottore a restare e quest’ultimo, che furioso per un mistero che lo ha sconvolto, forse un po’ cambiato e che ancora gli sfugge, gli spara contro e sotto gli occhi inorriditi della figlia finalmente tornata a casa, si accascia sulla sua poltrona stremato e ironico afferma: “l’ho mancato”.
Il dualismo continuo, perfettamente reso dalla scenografia data da una stanza illuminata, come porzione di un mondo e dal resto del palco al buio, colpisce al cuore gli spettatori e li trasporta in un viaggio dentro i protagonisti e un po’ anche dentro se stessi a fare i conti con pensieri profondi, domande irrisolte e fragilità presenti soprattutto nei momenti più bui della vita. E magari anche con una certezza di fondo: al di là dell’aldilà, è l’amore che può salvarci, quello che ognuno, credente o no, è in grado di dare al prossimo, è la bellezza dell’arte e la consapevolezza che solo una coscienza viva e civile e il rispetto per gli altri e per la terra che ci ospita può salvarci da noi stessi e da alcuni mali che ci affliggono.
Nicoletta Diella
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