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lunedì 28 novembre 2011

MARGHERITA DI SAVOIA : Si prendono un periodo di (parziale) riposo per circa 3 anni, con una riduzione di almeno il 25% della produzione totale.

A Margherita di Savoia è in arrivo un lungo inverno senza sapore, anche se ricco di promesse. Le più grandi saline d’Europa, per una capacità di 500 mila tonnellate l’anno sul lungomare della provincia di Barletta, si prendono un periodo di (parziale) riposo per circa 3 anni, con una riduzione di almeno il 25% della produzione totale. Questo è quanto emerge dal piano industriale 20122015, che la nuova proprietà, la "newco" Saline Italiane, discuterà nelle prossime settimane con il Cda, sindacati e i 225 lavoratori. In gioco c’è la rinascita del principale player del sale marino Made in Italy, l’ex Atisale, forte di una quota del 35% del mercato, ma finito nelle secche di coltivazioni intensive, litigiosità tra soci e perdite finanziarie.
«L’obiettivo numero uno è riportare al corretto equilibrio le risorse naturali, a costo di perdere terreno nel giro d’affari, ma per poi ripartire con un prodotto di qualità e un nuovo brand riposizionato sulla fascia alta del mercato del food», spiega Roberto Badalucco, da maggio amministratore delegato di Saline Italiane. Fino al 2003 il mercato della più antica fra le commodity, era gestito dal monopolio di Stato dei Sali &Tabacchi, in mano all’Eti. Poi è arrivata la tribolata stagione della privatizzazione, terminata con il rinvio a giudizio dei cinque soci imprenditori che l’aveva acquisita, responsabili, secondo la procura di Trani, di aver stipulato contratti non vantaggiosi per Atisale.
A maggio la lunga agonia, costellata di scioperi e cassa integrazione è finita – almeno se lo augurano le parti sociali con una scalata del sale nata sull’asse (ex) bancario TrapaniLecce.
La piccola Sosalt della famiglia d’Alì Staiti, 10 milioni di euro di ricavi, un tempo proprietaria della banca Sicula (Banca Intesa), oggi a capo delle saline di Trapani e Marsala, ha portato a termine l’acquisizione di Atisale, 40 milioni di euro di fatturato, in cordata con il socio Giovanni Semeraro, ex patron della Banca del Salento (ora Mps) e del Lecce Calcio, che ha recentemente messo in vendita. Il valore dell’operazione ammonta a venti milioni di euro, per metà risorse proprie il resto utilizzando leva finanziaria; altri 2 milioni per ripianare le perdite e 5 milioni previsti di investimenti.
La newco "Saline Italiane" porta a casa un gruppo, che oltre agli impianti di Margherita di Savoia, conta quelli di Volterra e di Sant’Antioco, in Sardegna. In tutto, si stima una produzione di 850 mila tonnellate l’anno di sale, secondo player nazionale, dietro all’Italkali di Palermo, che sforna 1,4 milioni di tonnellate, specializzati nel salgemma e ancora partecipata al 51% dalla Regione Sicilia, e davanti ai francesi di Compagnia italiana Sali (parte del gruppo francese Salins), con 200 mila tonnellate. L’altro grande operatore attivo è la società Luigi Conti Vecchi di proprietà dell’Eni che a sei chilometri da Cagliari produce sale per gli impianti di cloro soda del Cane a sei zampe.
La vecchia commodity è ben lontana dalla pensione, perché ancora capace di fare profitti. Il mercato del sale mondiale è constante crescita, del 3% l’anno, e vale più di sei miliardi di dollari, con Cina e Usa che sfornano il 40% della produzione. In Italia, oltre 200 milioni di fatturato generato dalle aziende del settore, l’ebitda media delle aziende attive è intorno al 9%, anche se nel piano industriale di Saline Italiane c’è l’obiettivo di arrivare a quota 20%.
La maggior parte della produzione, circa l’80%, non ha destinazione alimentare. Perlopiù finisce nelle strade come antigelo, un mercato di grandi volumi ma generalmente poco redditizio. Il costo a tonnellata, stando alle rilevazioni fatte da Roskill in Usa e Gran Bretagna, si aggira intorno a 40 e 50 dollari. Il valore dipenda ovviamente da una domanda che oscilla a seconda delle gelate di stagione. Lo scorso freddo inverno, in Austria e Germania, il prezzo ha superato il record dei 9 euro a quintale. Il sale raffinato, come quello utilizzato nell’industria chimica, è ben più caro: arrivando fino a 150 dollari per tonnellata. In cima al prezzario del cloruro di sodio ci sono sali pregiati ad uso alimentare (da cucina o per salare prosciutti), è il caso del Fleur de sel prodotto nel nord della Francia, l’oro bianco della categoria, che può valere anche 70 mila dollari a tonnellata.
Una articolazione del mercato che conosce bene la Sosalt di Trapani, 80 mila tonnellate vendute nel 2010, che nel giro di pochi anni ha portato il valore della sua produzione da 5 milioni a 10 milioni, con un export del 20%, puntando tutto sul food di qualità e riuscendo a strappare anche l’Igp del sale di Trapani. Dice Roberto Badalucco, che è anche direttore generale di Sosalt: «La produzione del sale è relativamente semplice. Per fornire qualità però ci vogliono investimenti e macchinari specializzati per il tipo di settore e di mercato. Noi intendiamo riposizionare il brand del sale italiano: meno antigelo per privilegiare lo scaffale della Gdo. Ecco perché il nome Saline Italiane. Un brand di alta gamma, rinnovato nel packaging e anche nel prezzo». L’arrivo Saline Italiane sul mercato è salutato con imprevedibile soddisfazione dai concorrenti, come Italkali, «Per anni – dice Enrico Moranti, consigliere dell’azienda in rappresentanza del 25% del capitale controllato dalla sua famiglia in Italkali – ci siamo confrontati con un operatore, Atisale, che ragionava in un ottica non di mercato deprimendo i prezzi, che oggi vanno ritoccati all’insù. Pertanto ben venga un competitor sul mercato italiano, anche se noi ci muoviamo in orizzonte diversi, con una forte propensione all’export e diversificando la produzione a supporto dell’industria e della manutenzione stradale».
Sul fronte operativo i due marchi Sosalt Trapani e Saline Italiane resteranno separati. Uno di altissima gamma, l’altro di fascia medio alta. Il gruppo manterrà però una unica regia, che vede la famiglia D’Alì Staiti, al 65% della newco, come socio industriale e Semeraro, partner finanziario, con lo scopo di aumentare il valore dell’impresa appena acquisita. «I primi anni fattureremo meno della passata gestione. Ma è necessario diminuire la produzione per ripartire con prodotti di alta qualità. In futuro una della opzioni potrebbe essere la Borsa o eventualmente una cessione a nuovi partner».


Fonte Repubblica

CHRISTIAN BENNA

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