Con le decisioni assunte in una delle ultime sedute, la Giunta regionale ha compiuto un ulteriore “passo avanti” nella riorganizzazione della offerta sanitaria sul territorio pugliese. A partire dal primo maggio 2018, in pratica, verranno chiusi i Punti di primo intervento che nel periodo di osservazione non hanno accolto più di quattro accessi al giorno, specie se caratterizzati da un basso livello di gravità e/o di urgenza; al loro posto ci saranno postazioni del 118, fisse nelle città con maggiori utenza e mobili, invece, in quelle con utenza minore.
Di primo acchito, il ragionamento non fa una grinza e la decisione sembra rientrare a pieno titolo in quel piano di riordino ospedaliero che, pur fra tante obiezioni, era stato assunto dalla stessa Giunta nel 2016.
Quel piano, lo ricordiamo giusto per dovere di cronaca, prevedeva la riconversione di diversi ospedali in presidi territoriali che, in modi alternativi al ricovero convenzionale, avrebbero offerto assistenza sanitaria alle comunità interessate; la speranza del legislatore era quella di rendere meno dolorosa la perdita di una struttura da sempre considerata rassicurante per la popolazione residente ed un punto di riferimento per la comunità.
A quel piano, sotto tanti aspetti opinabile, io ero contrario sia perché riduceva drasticamente il numero dei posti letto sul territorio regionale sia perché la scelta delle “strutture sopravviventi” era stata fatta più sulla base di criteri di opportunità politica che di reale valenza assistenziale.
Un esempio fra tutti? La scelta di premiare il presidio ospedaliero di Bisceglie, tuttora inadeguato nonostante l’enorme quantità di denaro spesa nel tentativo di ammodernarlo, a scapito dell’ospedale di Trani, dotato di un comfort alberghiero e di grandi possibilità di adeguamento agli standard comunitari.
Certamente lo spirito campanilistico, la mia militanza nel Consiglio comunale tranese e l’essere stato medico di quella struttura hanno condizionato, e forse condizionano ancora, i miei giudizi o, se vogliamo, i miei pregiudizi, ma alla fine ho sposato in pieno la proposta del presidente Emiliano difendendola in ogni occasione come la meno disastrosa delle proposte.
Per renderla più “compliante”, per usare un termine medico, ho partecipato attivamente alla stesura di una proposta alternativa che offrisse ad ogni città della Bat una sorte dignitosa piuttosto che una morte indecorosa quanto immeritata, proposta sottoscritta dai Colleghi consiglieri regionali della Bat, tanto di maggioranza quanto di opposizione; quel piano alla fine avrebbe potuto essere un male necessario dal quale uscire uniti e rafforzati nella volontà di assicurare un livello assistenziale adeguato alle aspettative.
Se ora torniamo al punto in questione, dovremmo concludere che la chiusura di questi 39 punti di primo intervento (della Bat, sono quelli di Minervino Murge, Spinazzola e Canosa di Puglia) diventa un atto dovuto, coerente col piano di riordino ospedaliero e con gli impegni assunti con il Ministero, accordi stigmatizzati nel decreto ministeriale n.70 del 2015, laddove ci si riferisce alla riconversione in presidi medicalizzati del 118.
Allora si pone, legittima, una domanda: se tutto è politicamente ed amministrativamente logico e coerente perché tanto malessere, perché tante obiezioni, per quanto tardive, da esponenti politici bipartisan, perché tanti inviti alla riflessione da parte delle istituzioni e delle organizzazioni sindacali?
La risposta è semplice e sta nei ritardi accumulati dalle Asl nella realizzazione delle strutture compensatorie e nella attuazione di quanto previsto negli Accordi di programma e nei Protocolli di intesa che l’Amministrazione regionale ha sottoscritto con questo o quel Comune, assicurando a gran voce che nessuno avrebbe risentito negativamente dei tagli che, ineluttabili quanto dolorosi, dovevano essere operati per motivi di logica economica e per la tutela della sicurezza sanitaria dei cittadini amministrati.
Gli ospedali piccoli, privi di tecnologie di esperienze professionali, sono un pericolo per i pazienti, affermavano gli esperti e, perciò «li chiudiamo ed al loro posto vi diamo altro»: potenziamento degli ospedali di secondo
livello, nuovi ospedali a distribuzione provinciale, PTA, PTA integrati, CPT, Case della salute e quant’altro.
Ed è proprio questo “altro” che, invece, è mancato (vedi l’ospedale di Andria), continua ad essere nebuloso e controverso (vedi il Pta di Trani) e alimenta le proteste: le Asl (per non addebitare le colpe ai singoli direttori generali) non hanno completato la rimodulazione della rete ospedaliera!
Qualche volta non hanno saputo, altre volte non hanno potuto ma, in parecchi casi, non hanno voluto farlo per dare invece priorità a questo o a quel presidio ospedaliero, spesso promosso solo perché raccomandato.
In questo panorama la mannaia che si sta abbattendo sui tanti PPI “inadempienti” mette seriamente a rischio il diritto alla salute costituzionalmente garantito a tutti i cittadini: in moltissimi territori i Pronto soccorso residui, che già affrontano quotidianamente situazioni che vanno oltre ogni limite di tolleranza, saranno costretti a ridurre ulteriormente il livello qualitativo delle prestazioni professionali, per non parlare dei tempi e delle liste di attesa che lieviteranno in maniera smisurata a tutto vantaggio delle attività private.
Sulla base di queste considerazioni mi associo ai tanti Pugliesi, ai Colleghi del Consiglio Regionale ed alle Sigle Sindacali nel chiedere al presidente Emiliano una pausa di riflessione al solo scopo di trovare nelle pieghe dei piani di razionalizzazione concordati con i Ministeri competenti lo spazio per i PPI necessari ed il tempo per la realizzazione delle strutture compensatorie.
Mimmo Santorsola – Consigliere regionale
Nessun commento:
Posta un commento